MARA FELLA
MARA FELLA

A dicembre a Lampedusa occorre arrivarci in punta di piedi: è il momento in cui lì si inizia a riposare davvero dopo una stagione turistica che dura da primavera ad autunno inoltrato e che conduce sull’isola un quantitativo di persone pari a dieci volte il numero dei suoi abitanti. Oppure è il momento in cui gli isolani approfittano della relativa quiete per ricongiungersi ai familiari che abitano altrove.
Ci si arriva in punta di piedi, dicevo, soprattutto se il desiderio che mi guida è quello di scorgere altro rispetto alla narrazione mediatica o a quanto viene proposto dalle agenzie di viaggio . I paesaggi incontaminati, il verdeazzurro cristallino del mare sono argomenti che impiegano pochi istanti per conquistare qualsiasi cuore, mentre la gestione dell’accoglienza, nascosta agli occhi dei più e trattata in termini spettacolari, genera artatamente timori e apprensioni che induriscono gli animi.
Chi mi ha parlato mi ha raccontato con grande onestà di pensiero che lo spirito del luogo vive da molti anni una profonda contraddizione: Lampedusa è allo stesso tempo sia isola di salvezza che di “detenzione”. E questa sua duplice natura, così misteriosa ed affascinante, non si svela agli occhi dell’osservatore, se non nel tempo.
L’idea di utilizzare il bianco e nero per le foto nasce proprio dall’esigenza di dissociarmi dalle narrazioni stereotipate a cui mi riferivo, per restituire una visione che invece sospenda il giudizio e che in qualche modo rallenti lo scorrere del tempo.
Per restare fedele a quanto affermato inizialmente, ho voluto accostarmi a Lampedusa in punta di piedi anche fotograficamente: da lontano, quindi.
Le prime foto proposte vogliono dare una panoramica di un territorio, a volte aspro e duro, altre di incommensurabile bellezza, tale il senso di libertà e apertura che riesce a sprigionare: un insieme di travolgenti emozioni tali da togliere il fiato.
Avvicinandomi al centro abitato, le fotografie sono quelle che introducono Porto M, (M come Memoria, Migrazioni, Mediterraneo, Militarizzazione) punto di ritrovo durante le serate estive e sede di un’importante associazione culturale che promuove, tra le altre cose, l’idea di conservazione della memoria.
Lo fa anche attraverso i numerosi spettacoli che mantengono viva la tradizione dei pupi siciliani, che Giacomo mi mostra con comprensibile orgoglio generando in me una grande e immediata fascinazione.
Ma a Porto M si condivide anche la necessità di sviluppare una coscienza critica circa le politiche migratorie europee e la spettacolarità delle varie rappresentazioni mediatiche : qui è nato il museo della memoria, un’esposizione permanente degli oggetti che le persone in movimento hanno lasciato o abbandonato dentro le barche con le quali sono arrivate e che Giacomo e gli altri componenti del collettivo Askavusa hanno raccolto negli anni. Sono testimonianze importanti della vita quotidiana, come utensili, medicinali, generi alimentari, piccoli giocattoli e preziosi e rari documenti come lettere o musicassette.
Proseguo il racconto per immagini così come prosegue la mia passeggiata lungo il porto, dove mi imbatto in alcuni pescatori intenti a ricucire e a sistemare le reti; mi fermo a chiacchierare con loro e mi raccontano della loro giornata.
Ma è poco più avanti che avviene l’incontro che considero quello più prezioso e significativo: non credo assolutamente nel destino, eppure ancora oggi stento a pensare sia stata solo una coincidenza fortuita quella di imbattermi in Pepp “Top” e zio Giovannino allo stesso momento.
A Pepp, maestro d’ascia (il migliore a quanto dicevano, tanto da meritarsi quel “top” che inizialmente non sapevo spiegarmi) avevo mandato qualche messaggio nei giorni precedenti e quella stessa mattina mi aveva risposto dandomi appuntamento al bar dell’Amicizia, dove avrei dovuto raggiungerlo da lì a breve; lo vidi invece arrivare sul suo motorino: mi aveva riconosciuta da lontano - certo è che a Lampedusa, a dicembre, una “forestiera” non passa inosservata – e già mi sorrideva.
Forse non era il primo sorriso che ricevevo da quand’ero arrivata, ma quello, assieme al fatto che scendendo e prendendo in mano il suo bastone, prese anche il mio braccio, di cui non aveva affatto bisogno per camminare, sono stati senza dubbio alcuno il primo gesto gentile ed affettuoso che mi sia stato rivolto e che mi ha fatto sentire veramente accolta. Non so se sono riuscita a nascondere l’emozione in quel momento, ma non lo voglio fare ora: tengo stretto in cuore il ricordo della gioia che provai in quell’istante e nelle ore successive. Continuava a sorridere, e a breve capii il perché: aveva da poco parcheggiato la sua ape anche zio Giovannino, ed erano alcuni mesi che non si vedevano.
Zio Giovannino è stato a lungo un pescatore, indossa con orgoglio i suoi 97 anni ed è l’uomo più anziano dell’isola. Entrammo tutti assieme nel suo magazzino, pieno di reti appese e mille altre cose che non sono riuscita a fotografare perché completamente rapita dalla potenza di quell’incontro.
Poco più in là, alla destra, c’era un tavolo, al quale sedemmo, in compagnia di Calogero, ex capitano di motovedetta, molto felice ed emozionato anche lui di essere presente in quella strana mattinata.
Zio Giovannino iniziò a raccontarmi, sollecitato anche dagli amici presenti, la storia dell’isola da quand’era poco più che un bambino, con una lucidità ed un’ironia invidiabili, il tutto reso ancora più teatrale dall’utilizzo della lingua siciliana, che quando si faceva ardua da comprendere, mi veniva prontamente tradotta da Pepp, a bassa voce e con discrezione per non interrompere il racconto. Nessuno di noi l’avrebbe fatto, men che meno io, che avrei fotografato ogni espressione a quel tavolo.
E’ stato commovente quando, nel salutare gli amici, non ha mancato di far sapere loro della contentezza provata nel ritrovarli e del bene che voleva loro.
Quando l’ho salutato, dicendo che sarei tornata con piacere, almeno per fare una partita a briscola assieme, mi ha regalato un sorriso che non scorderò ed esortata a farla subito: certi inviti, si sa, sono indeclinabili. O meglio, sono un dono.
Ho perso, ma mi sono difesa bene.
Quello stesso pomeriggio accompagnai poi Pepp a pescare: disse che avrebbe preso quattro orate e così fu.
A lui chiesi esplicitamente cosa avrei dovuto fotografare affinché i miei scatti fossero onesti nel racconto dell’isola e mi fece avvicinare: “guarda, qui. Entra qui dentro” rispose mentre le dita affondavano nel ventre dell’orata che stava pulendo. “E’ con questa violenza che dobbiamo fare i conti. Da bambini ci dicevano che il pesce non soffre, che i suoi movimenti sono dovuti ad un fatto di terminazioni nervose. Ma poi l’abbiamo scoperto che era tutta una menzogna.” Rimasi in silenzio e mi vennero di nuovo in mente quelle poche parole che qualche giorno prima mi disse un uomo in cimitero: “Signorina, si ricordi che il pescatore è generoso. La sua natura è quella di essere generoso”. Era un pensiero che mi girava in testa senza darmi tregua, volevo scoprirlo di persona e mi chiedevo come quella generosità e quella violenza potessero essere così legate. Ma non finii di ragionarci che stavo già rientrando a casa con le quattro orate che Pepp mi aveva regalato.
Negli scatti a loro dedicati, ritrovo e riconosco la mia visione e la mia emozione.
Cosa che invece, ammetto, faccio più fatica a fare proseguendo avanti in questa sorta di passeggiata che mi conduce al Molo Favaloro in occasione degli sbarchi avvenuti in quei giorni.
E’ imprescindibile trattare la questione delle persone in movimento quando si parla di Lampedusa, ma non c’è stata possibilità alcuna di avvicinare nessuno: la zona del molo è area militare, uomini, donne e bambini, una volta tratti in salvo, vengono fatti salire su degli autobus che li conducono all’hot spot, e dove restano fino a quando non verranno trasferiti un’altra volta. Tutto il più possibilmente nascosto agli occhi dei turisti, ma anche degli stessi abitanti, che pure negli anni si sono ampiamente dimostrati accoglienti e sensibili alla situazione e che oggi soffrono per una gestione che presenta molti aspetti critici, dalla bulimia mediatica, alla sensazione di essere completamente abbandonati dalle politiche dei governi che si sono avvicendati nel tempo
Non potendo, quindi, sentire le voci dai diretti interessati, e non trovando gratificante scattare da lontano, ne ho ricercato tracce camminando sugli scogli e battendo cale e spiagge che nelle notti precedenti erano state teatro di sbarchi autonomi, prontamente individuati da esercito e forze dell’ordine.
Una barca di ferro arrugginita, altre in legno frantumatesi sulla costa. Scarpe, vestiario, coperte. Ogni cosa a guardarla a lungo fa rabbrividire, se poi racconta di un naufragio in piena notte, lacrime, impotenza e rabbia si confondono.
Di chi era quel biberon rosa che ora si trovava sotto ai miei occhi?
Poco più in là, un preservativo galleggiava in una pozza d’acqua salata. Anche se dubito fortemente qualcuno si sia amato in un momento così tragico, mi piace pensare che quando la morte è così vicina, forse amare è ciò che più ci tiene attaccati alla vita.
Ritorno sui miei passi, la sera scende a Lampedusa e le conferisce un’aria familiare, nonostante il mare sia agitato e le onde arrivino quasi ai miei piedi. Sono agitata anch’io come lui, sento che proverò nostalgia per qualcosa che non ho conosciuto.
Alcuni ragazzini giocano a calcio nella via principale, ora sgombra dalla folla che fino a qualche mese prima invadeva l’area. L’isola è loro.
A Lampedusa è bene arrivarci in punta di piedi sempre, in tutte le stagioni, come bisognerebbe fare quando si entra nella vita di una persona e ci si vuole restare.




LA FOTOGRAFIA E L’ISOLA DELLE NARRAZIONI SOSPESE
“Disseminate sul mare, le isole sorgono come crogioli di storie”
Maylis de Kerangal, “Lampedusa”
“A Lampedusa è bene arrivarci in punta dei piedi sempre, in tutte le stagioni, come bisognerebbe fare quando si entra nella vita di una persona e ci si vuole restare”
Mara Fella
La fotografia non è certo la riproduzione della realtà, ma è essenzialmente linguaggio. Proprio per questo è uno strumento di volta in volta chiaro o ambiguo, sincero o infido, onesto o falsificante; ovvero strumento ingenuamente consolatorio oppure di analisi e di conoscenza: in quest’ultimo caso ben si presta a essere bisturi affilatissimo per dissezionare quel groviglio di apparenze che chiamiamo realtà e ricavare da tale notomia un’interpretazione sintetica per immagini in cui potersi riconoscere anche come comunità. Cosa questa, o processo che dir si voglia, che comunque implica una presa di posizione, una scelta e dunque una responsabilità. Specie se la fotografia intende di proposito superare una sua facile interpretazione corriva e superficiale, di fatto ancora magica o scaramantica o feticistica, e invece assumere consapevolmente il ruolo che le è proprio, cioè quello di essere linguaggio, interpretazione.
Una delle funzioni principali e perfino fondanti del linguaggio è quella narrativa. Ogni linguaggio, pure quello apparentemente più denotativo, in verità costruisce una narrazione o un abbozzo di narrazione proprio perché si tratta pur sempre di dare avvio a una sorta di relazione empatica, senza la quale non vi sarebbe di fatto comunicazione, o comunque la comunicazione risulterebbe difficile o incompleta. Oggigiorno, nel nostro mondo internettiano, assistiamo a una bulimia linguistica proprio perché i soggetti emittenti cercano con ogni mezzo di attivare una comunicazione innanzi tutto emotiva (più che autenticamente empatica) e quindi noi riceventi rischiamo di essere risucchiati in un vortice vischioso di sollecitazioni sostanzialmente effimere e in ogni senso poco significanti, superficiali e ingannevoli. E tale odierna bulimia linguistica si sostiene soprattutto grazie alle immagini (che facilmente entrano nelle stanze della nostra attenzione tramite il grimaldello dell’“immediatezza” e della “verità”) anche perché i tempi di lettura dei messaggi sono diventati sempre più brevi e rapidi e l’immagine si presta a essere colta (percepita e non interpretata) al volo, in pochi istanti.
In fondo il racconto di Maylis de Karengal pubblicato in Italia con il titolo Lampedusa (titolo per la verità un po’ improprio, stante quello originale À ce stade de la nuit) è una narrazione che nella sostanza ha per oggetto il linguaggio, o meglio i linguaggi: della comunicazione giornalistica, della letteratura, dei film, della retorica, della memoria. La sua evocazione-narrazione ruota, per cerchi concentrici, attorno al nucleo rappresentato simbolicamente da Lampedusa, diventata tragicamente nota per le morti in mare dei migranti, specie dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 nel quale morirono per annegamento più di 350 tra uomini, donne e bambini. Tuttavia il racconto è una progressiva presa di coscienza di un dramma attraverso un processo di immedesimazione in cui convergono più elementi, più frammenti di linguaggi, associati e tenuti assieme dalla memoria personale e collettiva in una fase storica di crisi in cui, proprio come accade al Principe di Salina descritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e da Luchino Visconti che nell’acme della vicenda si allontana dal ballo estenuante delle vuote vanità, si percepisce sempre più un’opprimente necessità d’aria, nell’ ”asfissia generale”.
Il racconto-diario di Maylis de Karengal si conclude icasticamente con la parola “Ospitalità”, ovvero l’auspicio di un nuovo inizio. Anche Mara Fella nella sua narrazione-diario parte da tale valore: la sua è la ricerca di un’auspicabile conferma, magari di un’isola di solidarietà nel mare incombente e strisciante dell’indifferenza o dell’aperta ostilità; ricerca di umanità nell’emergenza e nell’accoglienza, al di là dei proclami mediatici di diverso segno. Il tutto a partire comunque da un fondamento: il rifiuto dell’immagine costruita apposta per essere mediaticamente impattante. Pure la scelta del bianco e nero va in questo senso, per di più di un bianco e nero tenuto sui toni molto bassi, quasi che l’immagine con la sua verità percettiva debba emergere dall’oscurità delle contraddizioni del mondo e dal buio dello spirito che ne deriva. C’è ancora qualcosa di alchemico o di filosofico in questo voler credere che la fotografia sia in ogni caso una conquista di luce, e non tanto o non solo di luce fisica quanto piuttosto di luce spirituale, di consapevolezza o di vicinanza: pare infatti che per la fotografa isontina le immagini vadano sottratte al regno del buio, quello di un gorgo che inghiotte ogni senso; così le immagini sono una forma di riscatto.
Il reportage di Mara Fella dunque va sì inteso come il diario di uno sbarco a Lampedusa, ma soprattutto interpretato come una ricerca di umanità vera, nelle testimonianze degli uomini così come nella presenza apparentemente muta delle cose. Quella dell’artista isontina è primariamente una fotografia umanista, ha sempre l’uomo al centro, e più che agli eventi dà spazio ai sentimenti e alle emozioni che li precedono o che li seguono: è come se Mara Fella cercasse di rappresentare le motivazioni, i moventi, le idee, i moti dell’animo prima degli eventi che ne conseguono. Anche quando fotografa delle cose o degli oggetti, in realtà fa dei ritratti: perché gli elementi materiali hanno comunque una voce, raccontano una storia da ascoltare e da mettere al sicuro in un’immagine. A Lampedusa il silenzio di una terra solitaria e arcaica è stato rotto e ora tutto è diventato narrazione di narrazioni, anche quelle sospese o inascoltate di migliaia e migliaia di migranti che tra i flutti sono riusciti a raggiungere quest’isola. Le onde che si infrangono sugli scogli sono racconti che vengono da lontano, sussurrano qualcosa che magari non riusciamo a comprendere: sono il respiro di una dimensione esistenziale che supera ogni contingenza; a saperle ascoltare sulle rive di una terra mitica, sono la voce saggia e un po’ sconsolata della storia: scandiscono lo scorrere del tempo e tuttavia lo travalicano.
Mara Fella nella sua narrazione non cade nel tranello di alcuna retorica migratoria, ma punta all’essenziale e parte da immagini scarne di austero contesto: un tratto brullo di costa rocciosa, un cespuglio di fichi d’India, poche pecore al pascolo. Poi ci dice soprattutto degli incontri con alcuni isolani: Giacomo, il puparo; Pepp, il maestro d’ascia; zio Giovannino, il vecchio pescatore. Incontri decisivi, che lasciano il segno. Da figli di una terra antica di antica filosofia le fanno capire che la vita si manifesta spesso con tratti di crudele violenza e proprio per questo deve essere emendata dall’ospitalità e dalla generosità. Già lo sapevano gli eroi di Omero. E però, là sulla terraferma, molti lo hanno dimenticato, così come hanno dimenticato le radici della loro cultura che un tempo elaborò perfino civiltà. Il buio (un buio anche simbolico) alla fine cala lentamente sull’isola per buona parte nascosta agli occhi dei più e in questa stagione abbandonata dai turisti. Un altro giorno, di quelli con cui ora si contano gli sbarchi, è passato. Nella penombra della sera, alla luce di un lampione, alcuni ragazzi giocano a pallone. Sono loro che possono tenere accesa la speranza.
Angelo Bertani





